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Ernesto Riva

 

Il potenziale valore medicamentoso delle piante deve sicuramente aver suscitato la curiosità dell"uomo primitivo il quale, basandosi sull"osservazione del comportamento degli animali, o lasciandosi guidare dall"istinto o, molto più semplicemente, affidandosi al caso, fece tesoro di una serie di esperienze "farmacologiche" tentando poi di trasmetterle oralmente ai propri simili. Si potrebbe dunque dire che l"uomo ha saputo trar profitto dagli insegnamenti della natura, con la quale viveva in stretta simbiosi, e che evidentemente gli ha offerto gli strumenti per aiutarlo a difendersi dai pericoli più insidiosi che mettevano a repentaglio la sua vita, non ultime le malattie. Malattie che egli probabilmente tentò di contrastare, a costo di mettere a repentaglio anche la propria pelle, sperimentando i rimedi ricavati dalle piante.

La materia medica medicinale dunque non può che originarsi dalla botanica, ovvero da un primo tentativo da parte dell"uomo di scoprire nelle piante quella straordinaria, divina, forza sanante capace di contrastare ogni sorta di malattia specie quando questa colpisce un individuo molto legato ad una concezione magico-superstiziosa dell"esistenza.

I RIMEDI MEDICAMENTOSI DEI POPOLI PRIMITIVI

Qualsiasi tentativo di interpretare questo aspetto della vita dei nostri antichi predecessori rischierebbe però di perdersi negli oscuri meandri della preistoria della materia medica, fatta di ipotesi e di vaghe testimonianze "scritte" giunte a noi in modo assai frammentario.

Si potrebbe tutt"al più trarre spunto da quella "medicina primitiva", ancora oggi viva e praticata da popoli, oramai in estinzione, che conducono una vita rudimentale e primordiale forse rapportabile a quella della preistoria.

Basta dare un o sguardo alle abitudini di vita delle popolazioni Nilo-Camite africane per rendersi conto quanto la loro pratica della medicina sia legata ad una concezione animistica e magica della vita e quanto i rimedi che essi adoperano per combattere le malattie siano l"espressione dell"empirismo più elementare.

Non abbiamo difficoltà a definire i popoli Nilo-Camiti dell"Africa Orientale una comunità primitiva, senza per altro nulla togliere ad una probabile loro forma di cultura accumulata certo nel corso dei millenni. Per particolari contingenze legate soprattutto alla lotta per la sopravvivenza, questi popoli sono ancora oggi, come migliaia di anni fa, costretti a sopravvivere in un ambiente ostile e preistorico ; la loro cultura è dunque arcaica e al di fuori degli schemi calvinisti che sono all"origine della nostra civiltà industriale. Una cultura primordiale, profondamente immersa in un mondo magico, assai temuto e allo stesso tempo considerato con un senso di adorazione, mondo privo di strade, coltivazioni e centri abitati.

Un mondo privo di storia, dunque preistorico, popolato da alberi secolari che da soli si abbattono e marciscono nella savana, da rossi termitai che crescono a dismisura con la stagione delle piogge, da fiumi improvvisi e vorticosi che durano il tempo della pioggia. Un mondo irreale, caratterizzato da silenzi assoluti e dalla terrificante monotonia di una savana che non fa che ripetere se stessa per miglia e miglia.

In questo mondo l"africano pratica i suoi riti propiziatori, sacrificando i suoi buoi e benedicendone la carne con rami di alberi considerati sacri, e spalmando di sangue il tetto della sua capanna. A questo mondo egli affida i propri morti quasi volesse, non seppellendoli, restituirli alla natura a costo di darli in pasto alle iene. In questo mondo, magico e al tempo stesso insidioso, egli ha sviluppato la sua concezione magica dell"esistenza.

La magia in Africa è una presenza universale, come unica religione autoctona che pervade una umanità primitiva strettamente legata alla terra, con cui si sente parte inscindibile e in relazione reciproca e continua. In questo contesto, la mentalità dell"uomo primitivo appare al tempo stesso infantile e universale e, non esistendo il confronto tra il reale e l"irreale, tutto ciò che lo circonda gli appare animato e vivente, tutto ugualmente possibile, temibile o adorabile. La magia si identifica con la paura. Un terrore perpetuo e oscuro, che l"europeo non concepisce perché ha una personalità più solida e perché con gli anni è riuscito a respingere e a dominare le forze di quella natura che invece incombono su di una umanità giovane, labile e priva di storia.

La magia è l"espressione di questa paura e al tempo stesso un tentativo di alleanza fra l"uomo e le forze soprannaturali, una specie di patto con la natura che sarà rigorosamente osservato attraverso l"uso di amuleti e talismani con lo scopo, non tanto di vincere le forze superiori, quanto di acquistarne la benevolenza e la protezione. La magia dunque è legata alle origini stesse dell"uomo e generata quasi da una necessità impostagli dal desiderio di vivere e dall"istintiva paura della morte; tutto questo porta ad ammettere la possibilità che esistano nell"uomo primitivo particolari sensibilità e percettività che vanno al di là dei nostri sensi e che potrebbero portare a una conoscenza delle cose occulte spesso messe in luce attraverso l"aiuto di un intermediario: lo stregone.

E" chiaro che l"applicazione dei rimedi a loro noti attraverso una discreta conoscenza tassonomica delle piante, considerando che si tratta di nomadi, è diretta a curare piuttosto i sintomi di tali malattie e con il ricorso troppo frequente ai purganti o agli emetici, proprio in base al principio elementare che occorre espellere ad ogni costo i veleni che causano le malattie.

Questo deriva dal fatto che la loro concezione della fisiologia e della patologia è piuttosto arcaica e semplicistica, conseguente più che altro alla familiarità con gli animali.

Il nomade africano certamente non sa spiegare e spiegarsi perché una pianta medicinale manifesta un tale effetto o un altro, ma di fatto ne fa un uso quasi sempre pertinente; come del resto non sa spiegare da dove gli provenga tale conoscenza, che sicuramente ha origini antichissime e non solo circoscritte alla sua tribù.

Anche la materia medicinale dunque, che già costituiva da tempo imprecisabile un patrimonio di conoscenza trasmesso oralmente presso le comunità primitive, cominciò a prendere forma e configurazione di "scienza" nel momento in cui fu espressa sotto forma di documentazione scritta e cioè con il nascere delle prime civiltà.

Tuttavia anche le culture non coinvolte - per così dire - dalle civiltà, sono riuscite a produrre e tramandare alla nostra scienza medica degli impieghi terapeutici e dei rimedi che sono ancora oggi alla base della farmacologia moderna.

Basti pensare ad esempio allo strofanto, una droga scoperta casualmente appena alla fine dell"ottocento quando un inglese di nome John Kirk, mentre guidava una spedizione missionaria nel centro Africa, notava che gli abitanti di quelle regioni usavano per le frecce un veleno detto kombè. "Vidi una pianta rampicante a me ignota - egli scrive - ...e dubitando che fosse quella velenosa, raccolsi io stesso i semi e mi misi a preparare il veleno. Allora gli indigeni, temendo che in quella operazione potesse un po" di veleno penetrarmi in bocca o in una ferita, mi dissero di guardarmi e così mi confessarono che quello era il veleno...".

Fu però il reverendo Orazio Waller che, facendo parte della stessa spedizione, casualmente ne scoprì l"azione cardiocinetica in un modo assai curioso. Avendo egli traversato - durante i suoi viaggi - alcuni terreni paludosi e sentendosi sfinito, si pose a giacere nella sua tenda in preda a malessere e con polso frequente. Alzatosi dopo un po" per lavarsi i denti, avvertì durante questa operazione un sapore amaro in bocca e si accorse che lo spazzolino era imbrattato con la polvere del veleno kombè che egli aveva raschiato dalle frecce che teneva in un pacchetto; quasi subito osservò che il suo polso si era regolarizzato e perciò pensò che questa pianta potesse essere un buon rimedio per il cuore.

I semi della pianta furono comunque portati in Inghilterra nel 1863 dallo stesso Kirk che li fece sottoporre a ripetuti esperimenti presso l"Istituto di materia medica di Edimburgo; fu in quel istituto che si dimostrò l"azione terapeutica sul cuore dello Stophantus Kombè e che vennero per la prima volta isolati i glucosidi cardiocinetici - denominati strofantina - che sono considerati i migliori succedanei della digitale.

Lo stesso vale per il curaro che fino alla metà del nostro secolo rappresentò più che altro una sorta di curiosità farmaceutica legata a sporadici impieghi sperimentali, fino a quando non fu fatto il primo tentativo, nel 1942 da Griffith e Johnson, per ottenere rilasciamento muscolare nell"anestesia generale.

Il curaro è un termine generico che indicava vari veleni per frecce provenienti dal Sud America.

E" una sostanza impiegata per secoli dagli indigeni del bacino amazzonico per uccidere animali selvaggi destinati all"alimentazione, la morte di questi animali veniva infatti prodotta dalla paralisi dei muscoli scheletrici senza pregiudicare per così dire la qualità della carne.

La tecnica di preparazione di questo veleno era avvolta alquanto nel mistero e affidata perlopiù agli stregoni delle tribù i quali, tra il rituale, il segreto ed il magico, ottenevano però il curaro mediante una vera e propria reazione chimica che consisteva nella concentrazione degli alcaloidi contenuti in alcune specie di piante tropicali tra le quali la più importante e più ricca di sostanze attive era il Chondrodendron tomentosum.

La sostanza così ottenuta veniva poi colata negli internodi di bambù oppure dentro delle piccole zucche o in vasi di terracotta per essere utilizzata all"occorrenza.

Dopo la scoperta dell"America i primi esploratori e botanici incominciarono ad interessarsi di questa droga e a portarla in Europa a scopo di ricerca; fu Francesco Redi, nel XVII secolo, uno dei primi a studiarne gli effetti presso la corte del granduca di Toscana Ferdinando II e a rilevare che il curaro - detto allora ticuna - non era tossico se somministrato per bocca mentre velenosissime erano le frecce impiantate nel corpo degli animali.

Un secolo dopo Felice Fontana, con una serie di svariate e numerose esperienze, intuì e dimostrò che questo veleno rendeva immobile l"animale per paralisi delle terminazioni nervose motrici. "...Taluno potrà forse opporre che il veleno americano non opera che sopra gli ultimi estremi dei nervi e per tal ragione si rende innocente quando si applica ai tronchi dei nervi...", l"intuizione del Fontana era molto vicina alla verità in quanto - si sa - il curaro agisce sulle terminazioni neuro-sinaptiche.

Anche l"Harpagophytum procumbens, pianta è tipica della Namibia, viene da sempre lì utilizzata contro le affezioni più svariate.

La strana e sinistra forma del suo frutto, legnoso e frastagliato, munito di uncini a forma di "artigli", fa sì che sia nota tra le popolazioni indigene con il nome di "artiglio del diavolo". Lo stesso nome scientifico attribuitole deriva dal Greco harpagos (uncino) e si riferisce a quelle lunghe escrescenze ramificate, provviste di uncini, che spuntano dal frutto a fecondazione avvenuta.

La radice fresca, pestata, viene applicata sulla pelle in caso di ulcere, infiammazioni, foruncoli e cancri della pelle. la radice secca viene invece utilizzata in caso di malattie febbrili, malattie del sangue, disturbi della digestione e dolori della gravidanza.

Per le sue indiscusse proprietà antinfiammatorie la droga cominciò ad essere impiegata in fitoterapia non prima della metà del nostro secolo, quando cioè cominciarono ad essere individuati i suoi principi attivi, dei glucoiridoidi che possiedono proprietà analgesiche e analgesiche paragonabili a quelle degli antinfiammatori di sintesi senza però possederne l"azione antiartritica e spasmolitica.

L"Africa ci ha procurato anche un importante farmaco utile contro le ipertrofie prostatiche di nome Pygeum.

Furono J.D. Hooker e G. Bentham, due studiosi della fine del secolo scorso, a pubblicare la prima descrizione (Genera Plantarum, Londra 1862) di una specie di "prunus", simile al mandorlo ma di dimensioni mastodontiche (oltre 25 m.), che viveva spontaneo nell"Africa equatoriale.

L"albero, definito dagli autori Pygeum africanum, era ben conosciuto presso le diverse tribù del continente africano sotto svariati appellativi ed era perlopiù utilizzato per fare maschere cerimoniali. Il suo legno infatti, chiaro al momento del taglio, possiede la particolare caratteristica di assumere col tempo una colorazione rossastra.

Alcuni indigeni delle zone montane dell"Africa utilizzano inoltre la polvere ricavata dalla corteccia di quest"albero per somministrarla agli anziani affetti da disturbi delle vie urinarie. Il miglioramento delle condizioni patologiche di questi soggetti - probabilmente affetti da ipertrofia prostatica -evidentemente procurava anche un miglioramento complessivo del loro stato psicologico e quindi anche ad una probabile normalizzazione della loro funzione sessuale. Questo indusse gli indigeni a pensare che il Pygeum sia un efficace stimolante delle funzioni sessuali, ma questo suscitò anche la curiosità degli studiosi i quali, agli inizi del nostro secolo, intrapresero la sperimentazione di questo rimedio con maggiore convinzione.

Attraverso le varie tappe della sperimentazione susseguitesi nel nostro secolo si è giunti, solo di recente e mediante indagini cromatografiche, ad individuare nella corteccia del Pygeum africanum un importante gruppo di steroidi naturali e a capirne lo straordinario valore terapeutico.

E che dire di quella corteccia, nota con il nome di Johimbè, che viene usata presso alcune popolazioni dell"Africa tropicale come stimolante nervoso?

Presso gli stessi indigeni però la droga gode anche fama di afrodisiaco. Una fama in parte meritata, ma forse anche legata molto al fatto che la droga è in grado di produrre nell"organismo delle alterazioni periodiche che simulano uno stato ansioso durante il quale i soggetti trattati presentano una maggior irritabilità e un aumento della reattività generale.

Proprio per questo al pianta fu denominata Pusinystalia yohimbe (pausis-nistalis) che significa appunto "fermo il sonno".

Vista la curiosità che suscitava presso l"ambiente scientifico l"uso popolare di questa droga, gli studi relativi alla Pusinystalia yohimbe furono condotti in maniera piuttosto accurata e nella sua corteccia si individuò - non meno un secolo fa - un importante gruppo di alcaloidi a nucleo indolico con spiccata azione adrenosecretrice.

La yoimbina è il principale alcaloide ricavato dalla corteccia di Pausinystalia yohimbe e risulta essere costituita dalla condensazione di un nucleo indolico con uno chinolizidinico; molto affine quindi alla costituzione dell"acido lisergico.

Questo medicamento, aumentando l"eccitabilità riflessa del midollo sacrale e quindi dei centri parasimpatici sacrali, porta ad un notevole aumento degli impulsi efferenti che corrono nel nervo erigente, con conseguente vasodilatazione attiva del tessuto spugnoso dei corpi cavernosi e dell"uretra, accentuazione e risveglio del desiderio sessuale e facilitazione dell"erezione.

Dalla medicina popolare della Giamaica e del Messico giunge invece la corteccia di una pianta, nota con il nome di Piscidia, che viene ancora usata dagli indigeni per ottenere un"azione fortemente ipnotica.

Il nome deriva dal fatto che nei paesi di origine la droga veniva usata per la pesca: i pesci assopiti dai componenti ittiotossici della corteccia venivano galla con rapidità ecatturati così facilmente.

Queste proprietà ittiotossiche della Piscidia vennero nel secolo scorso confermate sperimentalmente quando un medico inglese di nome Hamilton eseguì i primi studi farmacologici sulla droga notando che essa provocava una forte azione narcotica, con dilatazione della pupilla, aumento della secrezione sudorifera e aumento della pressione arteriosa.

I principi attivi responsabili di questa azione deprimente vennero isolati solo agli inizi del nostro secolo, ma nello stesso tempo ci si rese conto anche che tale "azione deprimente" della piscidia aveva un meccanismo molto simile a quello della papaverina dell"oppio ma con un sito di azione molto più selettivo.

la capacitàterapeutica della piscidia infatti si manifestava con un"azione analgesica selettiva dell"apparato utero-ovarico e questo aprì la strada alla terapia sintomatica dei dolori mestruali e degli stati dismenorroici.

Gli indigeni delle rive del Calabar e degli altri fiumi che formano il delta del Niger invece, usavano ed usano ancora una fava, chiamata n"chogo, come veleno da somministrare durante le ordalie per invocare il giudizio divino. Il veleno doveva stabilire l"innocenza o la colpevolezza dell"accusato, per cui questo veniva condotto al tempio di un idolo e lì, davanti al popolo raccolto, veniva obbligato ad ingoiare 20 o 30 fave velenose . Be presto i sintomi dell"intossicazione si manifestavano; se lo sventurato vomitava e si liberava così del veleno si salvava ed era dichiarato innocente, se invece moriva era segno che la stessa divinità lo aveva punito perché era colpevole.

La droga usata per queste cerimonie erano i semi del Physostigma venenosum, un albero considerato sacro i cui semi (fave del Calabar) servivano agli indigeni del Gabon anche per avvelenare le frecce.

Furono i missionari che inviarono in Europa tali semi verso la metà del secolo scorso e, dopo che si verificarono alcuni casi di avvelenamento in bambini che si erano cibati di fave accidentalmente trovate nei porti di Liverpool e di Glasgow, ci fu chi si occupò seriamente di questa droga. Il primo fu l"inglese William Daniell che ci lasciò una dettagliata descrizione della fava del calabar nei suoi Sketches of the medica topography and native diseases of the Gulf of Guinea pubblicato a Londra nel 1849; poco più tardi i tedeschi Jobst e Hesse , nel 1864, riuscirono ad isolare dei semi di Physostigma un alcaloide - la fisostigmina , noto ai medici come un potente farmaco miotico per la cura del glaucoma.

Dalletribù indiane del Nord America infine ci giunge il rizoma di idraste (Hydrastis canadensis L), una droga che ha sostanzialmente le stesse proprietà della segale cornuta tanto che viene spesso usatain sostituzione di questa.

Contiene un alcaloide a struttura isochinolinica di nome idrastina che per ossidazione si scinde in idrastinina - oggi ottenuta per sintesi - e in acido oppianico il quale da poi per riduzione la meconina già isolata nell"oppio (benigni-capra, Piante medicinali...op.cit., p. 732).

La combinazione tra questi due principi attivi fa sì che la droga eserciti un"azione uterotonica, simpaticolitica e fortemente eccitante del sistema nervoso centrale.

Dagli indiani d"America essa veniva usata come una materia utile per ricavare un colore giallo. La radice di questa pianta, che poi prese il nome di golden seal, contiene infatti una sostanza colorante di natura flavonoidica che - opportunamente trattata - lascia una intensa e persistente colorazione giallo-dorata.

Gli stessi indiani però impiegavano l"idraste anche come medicamento stimolante della digestione, come drastico purgante e ne sfruttavano le proprietà antisettiche ed antinfiammatorie per curare i disturbi delle vie genitali. Questo incuriosì gli studiosi europei del secolo scorso che fecero conoscere in tal senso la droga alla medicina occidentale (Garden Dictionary, London 1768).

Da allora l"idraste trovò impiego soprattutto in campo ginecologico e in particolare nei disturbi dismenorroici.

Quanto detto sta a significare come un approfondimento, fatto con criteri moderni e scientifici, delle abitudini medico pratiche di talune comunità "primitive" che ancora vivono nel nostro pianeta, possano dare dei risultati a dir poco strabilianti. Lo studio dell"etnomedicina sicuramente ci serberà per il futuro ancora delle sensazionali sorprese, tuttavia rimane ancora e inconfutabile il concetto - come prima dicevamo - che la materia medicinale nel suo insieme abbia preso forma di scienza proprio con il nascere delle prime civiltà.

LA CIVILTÀ EGIZIA

La medicina praticata presso la civiltà Egizia sembra essere caratterizzata da un significativo punto di passaggio dalla concezione magico-teurgica della scienza medica all"impostazione tipicamente medico-pratica di carattere empirico-razionale. Una concezione biologica e sintomatologica della medicina, mai vista prima, che sicuramente si specializzò nella pratica della polifarmacia e che contribuì, non con poche difficoltà e fraintesi,a porrre le basi della futura materia medico-farmaceutica greco-romana.

Questa sapienza medico-empirica degli Egizi era infatti patrimonio esclusivo della classe sacerdotale e veniva incisa a geroglifici nei sacri papiri a cui avevano accesso solo gli iniziati. Sono i celebri papiri di cui tre sono documenti di fondamentale importanza per la materia medica: il celebre papiro di Ebers che si trova ora all"Università di Lipsia (lungo 20,23 metri!) e che risale alla XVIII dinastia, il papiro di Hearst, scoperto nel 1899 e che risale al XV secolo, comprendente ricette per malattie varie e infine i papiri di Ramesseum scoperti anch"essi alla fine dell"800 (sono 3, il Ram. III, il Ram. IV e il Ram. V ), contenenti formule magiche, prescrizioni ginecologiche e rimedi contro i dolori articolari.

I documenti sono scritti in ieratico, ovvero nella scrittura sacra usata per testi religiosi, poi estesa alle necessità quotidiane e presentati nella trascrizione geroglifica secondo la convenzione scientifica che vuole la trasposizione in geroglifico di qualsiasi testo ieratico. Ma questo lo si è scoperto soltanto nello scorso secolo a seguito delle imprese napoleoniche.

Grazie a questi documenti siamo ora in grado di ricostruire con una certa esattezza il mondo della materia medicinale dell"antico Egitto contraddistinta da un ricco, curioso e variopinto repertorio di droghe vegetali, animali e minerali.

Innumerevoli sono le piante medicinali utilizzate come ad esempio la cipolla che, oltre ad essere adoperata come unica - forse - fonte alimentare per gli schiavi che lavoravano alle piramidi, era considerata un utile medicamento per facilitare la digestione; o la camomilla, la cui storia come medicamento inizia nei tempi più remoti della civiltà egizia quando la pianta fu consacrata al Dio Sole.

Molto popolare era poi il fico (Ficus carica), tale da venir spesso raffigurato, in segno di grande considerazione, sui muri dei monumenti o sulle tombe. Gli Egizi lo usavano soprattutto per curare una misteriosa malattia chiamata "mangiatrice di sangue" che secondo alcuni egittologi altro non era che lo scorbuto.

Dopodiché il Ficus, il cui nome deriva probabilmente dal termine greco Sycon che si riferisce alla varietà sycomorus, non conobbe declino nei secoli presso tutti i popoli mediterranei sia come alimento che come medicamento.

Gli Egiziani si servivano anche del fieno greco (Trigonella foenum graecum) come pianta rituale da adoperare durante le cerimonie religiose, ma a citarne gli scopi curativi , riconoscendo ai suoi semi proprietà ingrassanti, galattogene e antielmintiche, è il famoso papiro di Ebers.

I presunti effetti ingrassanti di questa droga, noti alle donne egiziane, incuriosirono tutti i medici dell"antichità i quali si esibirono in formulazioni più o meno complicate a base di fieno greco per combattere la "magrezza". Non ultimi ad essere convinti di ciò furono i medici arabi, il cui preparato fatto ancora nel VI secolo, a base di semi di fieno greco frantumati in mortaio con olio di oliva e miele, è ancora in uso presso i popoli della Tunisia non solo come rimedio "ingrassante" ma anche per ottenere una qualche sorta di effetto afrodisiaco.

Le "pretese" anabolizzanti di questa droga non delusero però il mondo medico, tanto che già dai primi del nostro secolo il fieno greco venne largamente impiegato come alimento nella dieta dei tubercolotici ospitati nei sanatori; tale utilizzazione del fieno greco, oltre che suggerita dal consolidato uso popolare, venne anche avvalorata dall"acquisizione di nuovi dati - allora emersi - riguardanti la composizione di questo seme. Nello stesso periodo venne anche rinvenuto nei semi di fieno greco un discreto contenuto di trigonellina, una sostanza molto vicina all"acido nicotinico, ovvero una sorgente naturale molto interessante di Vitamina PP; questo giustificò il suo impiego contro l"allora devastante fenomeno della pellagra.

Per la terapia vaginale gli Egizi impiegavano tamponi imbevuti di sostanze vischiose da introdurre nella vagina; uno di questi rimedi - secondo il papiro di Ebers - era fatto con datteri, miele e coloquintide finemente triturati e introdotti in vagina al fine di ottenere un effetto anticoncezionale.

Essi erano inoltre dei forti consumatori di mirra, sia per le imbalsamazioni che per le fumigazioni che venivano offerte nei templi al dio del sole. La richiesta di mirra era tale che dall"Egitto si organizzavano veree proprie spedizioni militari nelle terre produttrici per impadronirsi della preziosa resina nonché delle piante da cui essa originava.

Quanto all"aspetto medicamentoso, la mirra ha da secoli un vasto campo di applicazione; citata in tutte le opere di materia medica costituì uno dei rimedi di elezione nella cura delle affezioni della pelle e dell"apparato respiratorio.

La droga giungeva in Europa dalle coste occidentali dell"Arabia e dalle pendici dei monti dell"Africa centro-settentrionale; era una resina profumata ed amara che veniva estratta dalle diverse specie di Commiphora e le sue proprietà astringenti e antinfiammatorie sono confermate dalla presenza di resine fenoliche.

Non fu solo per coincidenza inoltre che gli Egizi chiamarono la scilla (Urginea scilla Steinh.) "occhio del ciclone", viste le tremende reazioni venefiche che provocava l"ingestione del suo bulbo, ma laconsigliarono però contro l"idropisia. Questa infatti è la prima testimonianza scritta sull"utilizzo medicinale della droga e che risale a circa 1500 anni prima di Cristo, tempo in cui venne compilato il papiro di Ebbers che fa menzione appunto all"attività diuretica della scilla.

Questa pianta infatti può essere annoverata tra i rimedi di uso più antico presso le popolazioni del bacino mediterraneo; è ricordata dai più celebri autori greco-romani ai quali si deve l"invenzione del "vino scillitico", un rimedio quasi universale che venne portato in auge soprattutto dalla medicina araba nel V-VI secolo dopo Cristo. Dopo di allora la pianta prese anche l"appellativo di Urginea, che è tratto dal nome della città Ben Urgin in Algeria, nel cui territorio la scilla cresce copiosamente.

Dopo alcuni secoli di oblio la pianta ricomparve di nuovo nella terapia corrente, verso la fine del "700, ad opera del medico olandese Van Swieten, che le assegnò un posto di privilegio tra i medicamenti diuretici e da allora iniziarono i primi studi sperimentali sugli effetti cardiocinetici di questa droga. Verso la fine del secolo XIX Georg Merck isolò dalla scilla un gruppo di glicosidi cardioattivi denominati

genericamente scillareni e da allora la droga riprese autorevolmente il suo posto di rilievo nelle farmacopee.

Ricco e curiosoè poi il repertorio delle droghe animali impiegate dagli Egizi. Gli elenchi citati dai papiri sembrano piuttosto l"inventari dell"armamentario animale delle spezierie medioevali; vi si trova il fegato d"asino, il sangue di vitello, il guscio di tartaruga, gli escrementi di coccodrillo, le viscere dei pesci, la pelle di ippopotamo, le uova di struzzo e ancora carne di leone, di serpente, di gazzella, di stambecco e di lumache.

Secondo una concezione arcaica del corpo umano è logico dedurre che qualsiasi malattia o diffetto di carattere estetico sia da attribuire a qualche sorta di spirito maligno impadronitosi del corpo, uno spirito che si nutre delle sostanze vitali del suo ospite e al quale è necessario fornire un""alimentazione" decisamente repellente per indurlo alla fuga. Così si spiega il largo uso degli escrementi, sia per applicazione locale che per ingestione, come lo sterco di coccodrillo, di asino, di lucertola e di ippopotamo, o parti di animali dall"aspetto decisamente ripugnante come gli zoccoli di asino, la placenta di gatta, i visceri dei topi, i vermi e le mosche.

Il tutto deve però essere oggi valutato con la dovuta comprensione storica considerando che la medicina egizia emersa dai papiri, per quanto irrazionale e intrisa di elementi magici e religiosi, non ha mancato di esercitare la sua influenza sull"evoluzione della terapia nelle civiltà che seguirono.

Oltre a ciò è da dire che essi erano abilissimi nell"arte di comporre i rimedi ed espertissimi a trarre dal mondo dei minerali quegli elementi che furono la base della chimica moderna.

 

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